27 gennaio
11 marzo
2018

Angelo Biancini
OMAGGIO AL MAESTRO

a cura di Franco Bertoni

ANGELO BIANCINI

sculture domestiche

A trent'anni dalla scomparsa, a Imola viene organizzata una esposizione di opere di piccolo formato dello scultore di Castel Bolognese.

Angelo Biancini è noto soprattutto per le sue opere monumentali collocate in edifici civili e religiosi, in Italia e nel mondo. Si ricordano, tra le tante altre, quelle al Foro Mussolini a Roma (1933), a Lavezzola (1936), sul Ponte delle Vittorie a Verona (1938-39), di fronte al Palazzo della Civiltà Italiana all'E.U.R. (1941-42), a Imola (1946), a Chicago (1959), nella Nuova Basilica di Nazareth (1959), nel Tempio dei Martiri Canadesi a Roma (1961), all'Ospedale Maggiore di Milano (1964), a Firenze (1964 e 1965), a Camaldoli (1966), a Madrid e Miami (1967), nel Palazzo della FAO a Roma (1970), ad Arenzano (1973), ad Algeri (1978 e 1979) e a Buenos Aires (1978). Senza citare i tanti monumenti commemorativi di carattere resistenziale, civile, funerario o religioso sparsi in località romagnole e nazionali. Tutte opere che gli hanno valso meritata fama per indiscutibili doti plastiche e formali tanto che lo stesso Lucio Fontana (un artista apparentemente così lontano da lui) ebbe a dire che se avesse avuto le sue capacità sarebbe stato lo scultore più bravo d'Europa.

All'interno della vulcanica attività di Biancini - tra marmo, bronzo e ceramica e tra opere monumentali, ritratti (genere in cui ha primeggiato per acume e introspezione psicologica) e quelle che nel volume curato da Giorgio Mascherpa nel 1974 vennero congiuntamente classificate come “altre opere” - si è optato, in questa occasione, proprio per queste ultime.

Si tratta non tanto di bozzetti eseguiti in occasione di concorsi o di semplici prove quanto piuttosto di lavori, non certo minori, di destinazione diversa: un universo domestico in cui lo scultore - tra omaggi e umanissimo rispetto per le limitate possibilità economiche di tanti suoi estimatori – intendeva comunque approdare per diffondere la sua arte e, con essa, le sue possibilità di un dialogo con la vita quotidiana. Non occorre certo ricordare che Biancini, nonostante i tanti tempi attraversati, è stato un artista sempre fedele al “vero” e alle possibilità di racconto dell'arte. Con piccole figure di tutti i giorni (la donna che stende i panni al sole), animali affettuosamente colti in atti di un momento o esaltati per la loro pura bellezza e figure mitologiche come i fauni (divinità della natura portatori degli istinti sessuali e, quindi, ancora una volta “il vero”), Biancini ha semplicemente modulato in altra chiave il suo pensiero e il suo sentire: evitare le grandi teorizzazioni per concedersi completamente, con sguardo riconoscente, ai mille volti della realtà e al suo mistero.

E, qui, sta forse la religiosità di Biancini, che gli ha permesso di attirare le attenzioni e le simpatie di monaci, di alti prelati e di papi. Anche in queste piccole opere di Biancini c'è sempre un qualcosa di inaspettato, un qualcosa che non si sospetta di vedere, il breve lasso di tempo in cui ogni cosa è perfetta, la ricerca di un momento, l'istante memorabile, un qualcosa da afferrare e preservare, l'intersezione tra la vita quotidiana e il meraviglioso. Tutte espressioni di gratitudine per chi intende la vita come un dono, strano e difficile da comprendere quanto si vuole, ma pur sempre un dono.

Ad Angelo Biancini il merito di essere stato uno dei capisaldi di una concezione umanistica, etica e morale dell'arte. Una concezione della quale sono rintracciabili i primi sviluppi nelle opere realizzate per la Società Ceramica Italiana di Laveno tra il 1937 e il 1940 in cui, evitando i toni retorici e roboanti del periodo, l'artista si dimostra più interessato a cogliere attimi fuggenti quali l'emozione e lo sforzo di un bimbo che tenta di trattenere un'oca recalcitrante, l'umiltà del gesto di una povera mietitrice, la dignità contadina e nobile di una portatrice d'acqua e la bellezza di animali dei quali rende mirabilmente velli e piumaggi con allusioni a loro precise caratteristiche e alle sensazioni che si possono provare a seguito di un contatto fisico.

Biancini sa cogliere l'universale contenuto anche nella più piccola manifestazione della vita e - a suo e mio sostegno - non posso non citare opere immortali (anche se piccoli acquarelli) come la “Zolla” e il “Leprotto” di Albrecht Dürer che, passati i regnanti e i potenti magnificati nelle grandi opere, restano ben più di loro a interrogarci.

Nel dopoguerra, anche Biancini si apre alle, fino ad allora quasi sconosciute in Italia, ricerche maturate in Europa tra le due guerre. La forma si disarticola, una terribile guerra è pur passata, ma rimane sempre aderente a quel “vero” eletto a fonte inesauribile di ispirazione e di riferimento. Accanto alle grandi opere continua a realizzare piccole plastiche di animali e di soggetto comune. Le forme diventano ancor più mosse e vitalistiche, fin quasi a dissolversi nelle materie che le compongono.

Che piaccia o no, in un momento che magnifica l'esautoramento dell'homo analogicus da parte della virtualità, il miracolo dell'arte avviene quando una scintilla di vita si trasforma in epifania eterna, come ha ben scritto Antonio Paolucci proprio pensando a un cane: il cane raffigurato da Pontormo nella lunetta di Poggio a Caiano. Un cane qualunque - ma individuo, vero - che ha visto l'artista dedicarsi alla gloria dei Medici. E' passata la gloria dei Medici, e con essa tante altre glorie, ma quel cane (che non c'entra niente con la concettosa allegoria messa in piedi da Paolo Giovio) ci aspetta ancora, e per sempre.

In fondo: la gratitudine di chi sa cogliere le bellezze e i misteri della vita e dell'universale anche nelle loro più trascurate manifestazioni.

Ascoltiamo quanto di eterno ci dicono il putto con l'oca, la portatrice d'acqua, le civette, i gatti e i cani di Angelo Biancini.

Ogni giorno, nelle nostre case.

Franco Bertoni

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