2 febbraio
23 marzo
2019

Giovanni Scotti
DISSIPARE LE NEBBIE

a cura di Angela Madesani

Note su alcuni lavori di Giovanni Scotti Più volte mi sono sentita raccontare l’esperienza vissuta all’interno di un parco divertimenti, un luogo per me non solo respingente, ma addirittura rattristante come ogni esperienza di divertimento forzato, un po’ come i veglioni di Capodanno. Luoghi dai quali mi tengo lontana, come da bambina detestavo le giostre e i luna park. Così quando qualche tempo fa Giovanni Scotti mi ha mostrato il suo La città del disincanto (2015), cuore di questa mostra imolese, ho trovato rappresentato il sentimento che mi accompagna. Mi pare di rintracciare in questi lavori la forza delle mie sensazioni. L’artista stesso ha scritto nella premessa al lavoro che un viaggio, come quello da lui affrontato a Edenlandia, è rischioso, è come essere attraversati dal dramma della memoria e della crescita[1]. Un dramma esistenziale di non accettazione del passare del tempo che assale taluni di fronte alla memoria, al ricordo, alla vista di determinati fenomeni. Edenlandia non è un luogo qualsiasi, è il primo parco tematico costruito in Europa, nel 1965, dieci anni dopo quello di Disneyland, alla periferia di Los Angeles. Come in tutte le ricerche di Scotti ci troviamo, anche qui, di fronte a un’indagine di matrice sociale che sottende al lavoro come un sottile filo rosso, che mai diviene preponderante. Non si tratta di una documentazione. Il parco napoletanoè stato chiuso per un procedimento fallimentare nel 2013 e riaperto nel giugno del 2018. Quando l’artista ha appreso la notizia, ha iniziato a fare delle indagini sul tema per comprendere il senso delle cose. Quello che gli premeva non era documentare una situazione, bensì testimoniare delle atmosfere, un’essenza. «A Disneyland è lo spettacolo stesso che viene spettacolarizzato: la scena riproduce quel che era già scena e finzione. […] Non solo entriamo nello schermo, invertendo il movimento di The Purple Rose of Cairo. Ma dietro lo schermo, c’è solo un altro schermo. Il viaggio a Disneyland risulta allora essere turismo al quadrato, la quintessenza del turismo, quel che veniamo a visitare non esiste. Noi vi facciamo l’esperienza di una pura libertà, senza oggetto, senza ragione, senza posta in gioco. Non vi ritroviamo né l’America né la nostra infanzia, ma la gratuità assoluta di un gioco di immagini in cui ciascuno di coloro che ci sono accanto, ma che non rivedremo mai più, può mettere quel che vuole. Disneyland è il mondo di oggi, in quello che ha di peggiore e di migliore: l’esperienza del vuoto e della libertà»[2]. Sono parole scritte dall’antropologo e filosofo Marc Augé, oltre venti anni fa, ma la situazione per molti versi è solo peggiorata. Viviamo giorno dopo giorno in una società di finzione, di bugie, di apparenza, di ricerca dell’audience, di falsi populismi e di ritrovati sovranismi. Gli incontri che facciamo nelle fotografie di Scotti sono apparentemente rappresentati da situazioni pacate, ma la pacatezza è solo apparente. Sono tutte foto realizzate in assenza di visitatori. L’uomo non appare, la sua è un’assenza presente e tangibile. Il luogo vive e come afferma l’artista: «Se è vero che “guardare e vivere sono la stessa cosa”, come ci insegna Antonioni in Deserto rosso, ecco che lo sguardo può essere determinante per dare nuova linfa alle cose. Svelato il trucco, resta il disincanto, e magari è proprio grazie a questo che si possono cogliere allo stesso tempo l’essenza, la bellezza e il dramma dell’illusione, che è poi la vita stessa»[3]. Per entrare a pieno nei suoi lavori non basta uno sguardo sommario, bisogna andare oltre l’apparenza e cercare di comprendere, proprio in controtendenza con certa velocità, il senso pieno dell’immagine. La sua volontà è quella di creare un senso di straniamento nello spettatore che, vedendo vuoti, luoghi normalmente molto affollati, rimane spaesato. Il parco, infatti, appare in buono stato, le scenografie sonoilluminate, apparentemente funzionanti: potrebbero essere da un momento all’altro popolate, invece regna un senso di solitudine. Scotti mette in discussione il concetto stesso di illusione rispetto al modo in cui siamo soliti percepire la realtà di questi luoghi. La città del disincantoè una sorta di Via Crucis laica, in cui le stazioni sono gliIncontri. Tra essi è pure un rimando metafotografico, nel VentiduesimoIncontro. C’è lo studio di un fotografo, un tempo immancabile in ogni luogo di divertimento, un pupazzo che scatta, un flash che si accende, appare la scritta “Sorridi!”, che in un tempo di selfie come quello in cui ci è dato vivere, è del tutto normale: la realtà e il virtuale si confondono nella precaria vita dei social, alla caccia di ipotetici followers. Ogni secondo, milioni di persone si autoritraggono per postarsi e testimoniare la propria esistenza. Un binario è davanti al pupazzo. Su di esso, quando è in funzione, corrono delle navicelle che percorrono il Viaggio di sogno, un giro, che per la prima volta nella storia fu proposto proprio a Edenlandia. Non siamo nei paradisi artificiali di baudeleriana memoria e neppure nei meandri tragici dell’eroina, il viaggio rimanda a quello virtuale, proprio come le “derive” alle quali diamo vita, attraverso la tecnologia. In questo lavoro è già presente, anche se solo accennata, una luce molto chiara che ritroviamo nei lavori successivi di Scotti. È come se la luce avesse, nella sua ricerca, un valore metaforico, la luce che riesce a chiarire, a dissipare le ombre, a sovvertire lo stato delle cose che appaiono in stallo. Quelli di Scotti sono progetti visivi, ogni immagine è pressoché definitiva già dal momento dello scatto. Altre due opere sono in mostra, oltre a quelle delle quali abbiamo appena parlato. Una, sempre del 2015, e un’altra più recente del 2017. In comune hanno la presenza di una doppia porta di luce, come se si trattasse di un’entrata e di un’uscita dalla mostra. La prima, inedita[4], appartiene a una serie di immagini realizzate a Rijeka, in Croazia. La seconda propone il palcoscenico di un teatro che si trova nella ex base Nato di Napoli, un complesso architettonico costruito durante il ventennio fascista, che dopo la seconda guerra mondiale fu, appunto, occupato dagli americani. Una situazione su cui Scotti ha fatto un grande lavoro dal titolo Cinnamon Heart. Qui la luce è abbagliante. «Questo posto è completamente buio. Giocando con la sovraesposizione, ho ottenuto questa luce che non corrisponde alla realtà. Le gradazioni, i colori, i contrasti sono scaturiti da questa sovraesposizione portata all’eccesso»[5]. L’immagine è eterea, fiabesca, come se l’artista immaginasse una sorta di day after, come se qualcosa fosse successo, se intravvedesse l’inizio di un nuovo mondo. Il passato si fa futuro in un luogo carico di rimandi. Finzioni di luce e finzioni fisiche diventano un unicum poetico che non può che riportarci ai giochi dell’esistenza.


[1]Si tratta del riassunto di alcuni passi della dichiarazione di quanto scritto da Giovanni Scotti a premessa del suo lavoro in AA.VV., Giovanni Scotti La città del disincanto, Rogiosi editore, Napoli, 2015; p. 13.

[2]M.Augé, Disneyland e altri non luoghi, Bollati Boringhieri, Torino; p.25.

[3]G.Scotti intervista di chi scrive in Artribunen°24, 2015.

[4]Si tratta di un lavoro rimasto incompiuto.

[5]G.Scotti in una conversazione con chi scrive, dicembre 2018.

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